All’inizio di ogni lezione è opportuno riprendere il filo. Qual è il nostro metodo? Il corso ha l’obiettivo di introdurre a forme pratiche di scrittura narrativa, in modo creativo. Lavoriamo su una dispensa con i testi-guida; vengono letti i testi presenti nella dispensa e quelli creati dagli utenti. Li si commenta passo passo, dialogando e dando la parola, rispondendo e chiarendo obiettivi e strumenti.
Un po’ di strumenti-base del mestiere, dal lessico: siete studenti (gente che studia – dal latino stùdeo: seguo con passione qualche cosa); o alunni? alunno dal greco e poi latino alùmenos > alùmnus: colui che viene nutrito; pensiamo alle Università dette “alma mater” (non solo quella di Bologna), dove è la scienza che nutre gli spiriti, li “coltiva”…
Lo scopo del corso è proporre delle forme di scrittura narrativa (la volta scorsa siamo partiti dal racconto di Calvino) e degli esercizi. Si parte da esempi dunque. Questa volta gli esempi sono i “compiti”, i testi degli alunni stessi, così questa dispensa diventa il libro di testo, il teste, il testimone base.
Un racconto d’invenzione (fiction) e due ricordi: uno più “letterario”, l’altro più sintetico, quasi telegrafico.
Nicla Artusi, Tartarughe ● Racconto realistico, ma visto con l’ottica del protagonista, un bambino: nota il linguaggio, il lessico, le osservazioni. Si entra subito in scena. La conclusione è aperta: può aprire ad un nuovo racconto o lasciare il lettore al suo sogno. Terza persona, al passato. Era appena sceso indolente in giardino, quando le scorse uscire pigre dalla loro casetta nascosta tra gli steli del farinaccio infestante. Le tartarughe, piccole e veloci, si dirigevano svelte verso la recinzione, attratte dalla promessa di tenere foglie di insalata croccante (ne portava sempre con sé) più che dalla presenza el bambino. Minuto, dall’alto dei suoi cinque anni, arrivava appena con gli occhi al limitare della recinzione. Veloce, iniziò a correre intorno all’aiuola osservando i movimenti delle sue due piccole amiche. Il terreno intorno era argilloso, ricco di torba e sabbia. Il nonno gli aveva spiegato che lo strato di sabbia serviva alle tartarughe per poter scavare buche per l’inverno e per nascondere al sicuro le loro uova preziose. Il farinaccio, con le sue foglie verde chiaro e il margine ondulato, era proprio sgradevole alla vista; così il piccolo e il nonno qualche giorno prima avevano deciso di estirparlo e al suo posto di posizionare piantine di centocchio comune. Con tanta cura avevano scelto il centocchio: solo pochi vasetti, piante belle rigogliose, dai colori verdi vivi, promettevano un bel prato con zone d’ombra, dove le ‘ughette avrebbero potuto trovare refrigerio d’Estate. Che delusione, che sorpresa, che desolazione!! Le ‘ughette avevano particolarmente gradito il tenero centocchio: delle delicate piantine infatti non restavano che pochi steli smangiucchiati… Non importa, non si perse d’animo: penetrò dal cancelletto per accarezzare delicatamente il coriaceo guscio e sussurrare senza troppa convinzione: “Brutte! Avete divorato le mie piantine!”. Le lasciò libere e lui uscì dal recinto, totalmente indipendente.
Rosa Cogo, Il mio giardino – Un giardino “INA Casa”, ino ino, piccolo ma pieno di nomi e di scoperte. Il racconto ci dà anche il contesto, una descrizione dettagliata e una finale aperta, un invito anzi, a chiedere: raccontaci le storie. Prima persona, al passato. Ero piccola, anche se non sono nata in quella casa, per me era la mia prima casa, delle tante che ho abitato nella vita, che ho conosciuto e che ricordo. Era un appartamento al primo piano di un condominio di sei abitazioni, costruito dopo la guerra. C’era una targa che diceva “INA Casa”. Ogni appartamento aveva un fazzoletto di terra che ognuno poteva coltivare come voleva. Noi abitavamo al primo piano, sopra il seminterrato dove stavano le cantine e una lavanderia comune. Non c’erano garage; nessuno aveva l’auto. Al nostro rettangolo di terra si accedeva direttamente dall’abitazione, con una scala esterna ed era diviso da una rete da quello dell’appartamento speculare al nostro. Era il luogo dove io giocavo da sola dalla primavera all’autunno, protetta dai pericoli esterni. Non era giardino e non era orto, un vialetto lo divideva in due. Lo ricordo come un miscuglio di piante. Piante di fiori e piante di verdura. Insalata, prezzemolo, sedano, rosmarino, salvia e poi d’estate, pomodori, che io gustavo appena colti dalla pianta, qualche volta non ancora maturi. Un angolo era riservato alle fragole. Fragoline di bosco, non grosse come quelle che troviamo oggi al supermercato, piccole ma saporite che difficilmente arrivavano in tavola per un semplice dessert, preparate dalla mamma con zucchero e vino rosso. E poi piante di fiori: rose rosa, rosse e bianche, a maggio raccoglievamo i petali che venivano sparsi sul cammino durante la processione dedicata alla Madonna alla fine del mese terminato l’ultimo Fioretto. Fiorivano quasi tutta estate. C’erano le “bocche di leone” le “portulacche” le “dalie”, i gigli bianchi di Sant’Antonio, garofani, lilium viola e verso l’autunno fiorivano alcune piante di crisantemo, e altri fiori di cui non ricordo il nome. C’era un arbusto, oggi si vede raramente, che in primavera ricordava l’inverno e annunciava l’estate, con delle infiorescenze bianche, più piccole dei fiori di ortensia. Non conosco il nome, ma noi chiamavamo i fiori “palle di neve”. Il fondo al vialetto c’era un albero di cachi, oltre la rete di confine si vedeva un campo; poi qualcuno ha costruito una casa e poi sembrava che l’albero si appoggiasse al muro del mio giardino incantato.
Antonio Favino, Il giardino di casa – Un’altra descrizione e un altro stile: brevità, parole come immagini eloquenti. Gli “a capo” staccano ulteriormente, invitano il lettore ad ascoltare, a vedere. In questo modo l’esperienza narrata, grazie alla scrittura, diventa nostra. I verbi sono al passato, ma spesso non sono presenti. Alla fine una domanda: vera o retorica? A casa mia un giardino non c’era. Un palazzone, grande, popolare. Quattro piani, anni cinquanta. Spazio, però, ne avevamo e noi potevamo giocare. Entrando, sulla destra, il cipresso. Maestoso. Dietro, il prato. Sul fondo, tre robinie a guardia dei nostri giochi. Col tempo ne sono nati anche altri, di alberi. Dapprima arbusti, si piegavano a terra a ogni soffio di vento, le foglie a tremare. Poi cresciuti, col tempo, alti e forti. Come noi, negli anni, bambini divenuti uomini. Quel cortile ci ha insegnato lucciole e sogni, battaglie e tiri in porta, baruffe, lotte, pugni e botte. Corse, arrampicate, capanne e rifugi, in alto sui rami. Le mamme in terrazzo a chiamare. Avventure di un tempo che non potrà più tornare. Saranno ancora lì, le vecchie robinie, a guardare i giochi dei nuovi bimbi?