Le piccole cose, la riscoperta delle possibilità: fotografare i balconi fioriti per superare il nostro scontento; guardare le erbette e pensare che mi arrivano dal carcere; mettere in poesia un racconto e pensare alla diversità dello sguardo; ascoltare le voci che si affaccio sul giardino condominiale e uscire abbracciando il grande platano. “Contrastare l’ossificazione del mondo”, dice Bufalino. Anche un corso di scrittura serve. Scrivere così come facciamo noi qui immerge nel mondo ma pure isola. Sentiamo anche noi l’”isolitudine” degli scrittori siciliani? (Gesualdo Bufalino, “Isola nuda”, 1988).
Balconi, di Dina Rosati
Da diverso tempo sentiva nascerle dentro un che di scontento, non un malessere vero e proprio, ma un senso di “mancanza”, come il bisogno di colmare un vuoto. Forse era solo stanchezza, si diceva nel tentativo di attutire quella spiacevole sensazione, oppure noia del solito tran-tran: ufficio, casa, qualche uscita con le amiche per andare al cinema. Ogni giorno si proponeva di fare dei chilometri, sia in centro città che nelle zone periferiche; a volte aveva seguito le piste ciclabili e pedonali, cercando con lo sguardo di cogliere ogni particolare piccolo o grande del paesaggio. Considerava questo un ottimo esercizio di attenzione, da coltivare a beneficio della memoria e della capacità di ascolto, poi a casa riprendeva le solite attività con spirito più leggero. Fu al ritorno da una passeggiata che ebbe la “geniale idea”: fotografare i balconi fioriti! Sì, proprio quelli che rendevano le strade più colorate e l’atmosfera dei tanti caseggiati meno oppressiva. Anche le zone periferiche, più silenziose e isolate, a volte desolate, se ne giovavano: la natura ingentilisce l’animo. E aveva ragione Dostoevskij a far dire al principe Myškin “La bellezza salverà il mondo”.
Erbette ed altri reclusi, di Carla Gilari
Dietro casa, in questo piccolo fazzoletto di terra adibito ad orto, guardo il cespuglio di rosmarino con gli aghi ricamati. Sembra un alberello di Natale, decorato con fili bianco/argentei, che svetta tra la pianticella di salvia alla sua destra e a quella di alloro dall’altra parte. E penso alle altre erbe aromatiche che invece sono all’interno, recluse tra i reclusi, che non risentono dei ricami della brina, che non allietano gli occhi di chi li tiene in simil vasi di barattoli di latta riempiti di terra. E pensare che quelli che sto guardando ora sono partiti da là. Con quale differenza: liberi, all’aria aperta, esposti sì alle intemperie, ma baciati dal sole, dalle lacrime di pioggia, ingentiliti, come ora, dalla brina, e talvolta, più di rado, coperti da un leggero manto nevoso. La base da cui sono partiti invece è protetta, reclusa giocoforza, insieme a chi li cura e li detiene.
Effimero, di Maurizia Galuppo
Il mio balcone sporge
su di uno spazio che non è
un parco né un giardino
o una qualsiasi altra zona verde
non ha nodose panchine
né rumorosi biancastri vialetti.
È uno spazio incalpestato
in cui crescono libere le erbacce
d’inverno irrigidite di bianca brina
d’estate, alte, ondeggiano sinuose
premute da un occasionale vento.
Attorno, al pari di un alto steccato,
caseggiati spinti all’insù confinano
questo spazio, lasciando in lontananza
una larga fenditura in cui
come nei fotogrammi di un film
appaiono frettolose auto.
A me è caro questo effimero spazio
incolto, l’innalzarsi di un edificio oscurerebbe
il mio inconsistente infinito.
Risveglio, di Giorgio Rossi
Dalla terrazza ho guardato il giardino, un prato con poche piante, ben curato, c’è un platano con una grande chioma, un acero rosso non molto alto, qualche cespuglio di erbe aromatiche e di odorose, delle rose che fioriscono tutto l’anno, delle margherite pratoline sbocciate da poco, primi segnali dell’arrivo della primavera. Mi sono fermato con lo sguardo sul platano, mi piace la sua robustezza, se fossi stato vicino l’avrei abbracciato. Il rumore secco di una persiana sembrava il via di una gara, anche il condominio di fronte ha cominciato ad animarsi, le persiane che si alzano sembrano occhi che si aprono al risveglio. Dalle terrazze i vicini si salutavano comunicandosi qualche notizia, un’anziana al terzo piano era uscita sul poggiolo, appoggiata sul parapetto ha guardato un po’ attorno, poi è rientrata, una ragazza annaffiava gerani rossi su un balcone e con cura eliminava le foglie secche. Anche il cane di Ernesto, il falegname, era sceso in giardino per la sua passeggiata giornaliera. Il telefono mi ha ricordato che mancava poco alla partenza del bus. Tempo di preparare il secondo caffè e uscire, passare vicino al platano e accarezzarlo.
Dori Zantedeschi è passata nel gruppo di scrittura e ha lasciato un segno, l’invito al GIORNAL DI BOSCO curato da Elena Vissa e altri amici-colleghi, fra cui, appunto, anche Dori. Andiamo a vedere e troviamo un raccontino:
Il Cirmolo e la Nucìfraga, di Rachele Rosin
Cirmolo era un annoso esemplare di pino, precisamente un pino cembro. Nucìfraga, una nocciolaia, un robusto uccello. L’albero si sentiva però incapace: rispetto alla maggior parte dei semi delle altre specie, i suoi non possedevano alette per volare, erano pesanti e inoltre, la pigna che li ospitava non si apriva mai da sola. La nocciolaia era la chiave per risolvere il problema!…