Lessico: parodìa, dal greco “ rifare un canto parallelo al modello”.
Lezione, o la chiamiamo incontro, lettura (lectio si chiamava nel lessico medievale e si teneva nella schola, ambiente di riunioni anche extrascolastiche, per esempio le confraternite laiche di arti e mestieri: vedi la Scola grande di San Rocco dei volontari di assistenza in caso di peste. La nostra dunque si può chiamare scholetta o scoletta, nel duplice uso di scuola e di luogo di riunioni degli associati). Incontro piace di più. E siamo in linea con il nostro Progetto regionale, che ci coinvolge sempre più e ci lascia ad ogni lezione con la piacevole sensazione di aver vissuto una parentesi di condivisione e di evasione.
Come lettura esemplare questa volta abbiamo Mark Twain, da Le avventure di Tom Sawyer, il Capitolo 14, portato da Luciano, ricordo di sue letture giovanili… Breve racconto che si apre e si chiude con il canto degli uccelli con un’attenzione da bambino per gli animali che diventano protagonisti attorno al piccolo Gulliver e sembrano anticipare le visioni di Walt Disney (per chi ha voglia di andarlo a cercare, da notare il passaggio sul bruco che s’inerpica sulla gamba del protagonista).
Tom, una volta desto, la mattina dopo, si domandò dove si trovasse. Drizzatosi a sedere, si stropicciò gli occhi guardando intorno a sé; poi capì. L’alba fredda e grigia illuminava il cielo e la profonda calma e il silenzio che pervadevano il bosco causavano una sensazione deliziosa di riposo e di pace. Non una foglia si muoveva, non un suono turbava l’assorta meditazione della natura. Gocce di rugiada simili a perline luccicavano sulle foglie e sugli steli dell’erba. (…)
Indicazioni di lavoro: narrare non è fare filosofia o tantomeno ha a che fare con sermoni o trattati, ma le riflessioni ci possono stare, hanno il loro posto nel testo narrativo: o in bocca al narratore, la voce narrante, o ai personaggi, che così fanno da maschera ai nostri pensieri. Ci nascondiamo dietro di loro e li usiamo come schermo.
Un bambino ricorda, di Maria Gasparin
Una cosa che mi accadeva quando ero bambina: in primavera i temporali non mancavano mai, a volte molto impetuosi, tanto da far paura. Pregando perché nei campi non si distruggessero i raccolti, le donne di casa accendevano rametti di ulivo benedetto, pregando e sperando che la pioggia cadente fosse solamente benefica. Alla fine del temporale noi bambini uscivamo nell’aia correndo e, meraviglia delle meraviglie, tutto lo spazio esterno era ricoperto di piccole raganelle verdi che gracchiavano, uscite da ogni dove: noi avremmo voluto prenderle, mentre il rumore delle nostre risate e le urla di gioia quasi coprivano il loro gracchiare, e sembrava una grande festa, ritornavano da dove erano arrivate, nei fossi adiacenti ai campi o fra le foglie. Alzando gli occhi al cielo si vedeva l’apparire di un meraviglioso arcobaleno e noi a fantasticare su ogni goccia d’acqua sospesa nel vuoto, mentre il sole uscente la illuminava. Credo fermamente che il giardino di tutti in quell’epoca, il giardino che ci ospitava e ancora ci ospita, vivesse tempi migliori.
Il racconto di ricordi è sempre diverso, e si veste delle caratteristiche della nostra cultura e formazione. Sentiamo questa descrizione puntuale, fisica, della casa e della “superficie” che diventa magica, pur nel linguaggio distaccato, ma geometrico in apparenza: vedi l’uso dei diminutivi. Anche sulla conclusione c’è qualche cosa sempre da dire. È l’accordo finale alla fine della breve sonata, è importante come ci lascia alla fine delle pagine. Essenziale. Sentiamo la fine di questo racconto, apre qualche cosa, e sembra riprendere l’incipit.
ll giardino della mia infanzia, di Luciano Lain
Abitavamo nei pressi dell’ex Macello di Padova, vicino all’attuale Istituto Oncologico veneto. La casa disponeva a sud di un ampio spazio coltivato a vigneto e pescheto; a nord, sulla via principale, c’era una superficie sufficiente per ospitare due pini, una pianta di cachi, che produceva frutti “ragno” di qualità e quantità sufficienti, un vialetto centrale con ai lati tanti rosai con rose di svariati colori. Ai lati del vialetto, tante aiuole, la maggior parte delle quali – delimitate da piantine di bossi – era curata da mia sorella, che si divertiva a piantare o seminare varie specie di fiori variopinti. Un paio di aiuole era stata affidata a me: accoglievano piantine di mughetti. Grazie ad un accordo fra mio padre e il fiorista, vicino di casa, all’inizio di primavera raccoglievo a mazzetti questi profumatissimi fiorellini e provvedevo a portarglieli; in autunno sfoltivo le piantine per favorirne l’accrescimento e ottenere nell’anno successivo fiori di ‘bella presenza’ (altrimenti sarebbero cresciuti alquanto ‘smagrissi’): lo stesso accordo prevedeva che le piantine asportate venissero consegnate allo stesso signore. Infine, mi era stata affidata anche la manutenzione dei vialetti, con l’asportazione dell’erba e la raccolta di eventuali rifiuti. Non abito più in quella casa, da decenni. Il giardino esiste ancora. Passando la vedo.