Siamo in Toscana, di Annalisa Mastrogiacomo
Come si suol dire… correva l’anno 1960. Stazione di Padova. Una madre, una bambina e una piccola valigia di cartone. Al suo interno qualche indumento, un necessaire, qualche accessorio, forse un piccolo libro di preghiere. Ogni cosa contrassegnata dal numero 19. La bimba ha 9 anni. Azzurra è il suo nome, come il mare che incontrerà dopo molte ore di viaggio. Destinazione: Colonia F.F.I.E. Tirrenia, Calambrone. (Scoprirà, ormai adulta, che si trattava di una delle ex colonie educative della Federazione Fascista, costruite negli anni dal 1929 al 1936, nate per “fornire ai ragazzi e alle ragazze un’educazione ferrea e rigorosa, rispettosa dei dogmi e degli insegnamenti fascisti”.)
Azzurra non sa quanto sia lontana dalla sua città questa destinazione. Ha accettato passivamente la scelta dei suoi genitori perché… così si fa.
-Mamma, dove andiamo? Questo treno dove ci porta?
-Andiamo al mare, dove potrai vedere dei luoghi nuovi, conoscere altri bambini, giocare, divertirti e stare meglio di salute.
-E quando arriviamo?
-Il viaggio è un po’ lungo, ma dicono che il posto è bello. Ti farà bene il clima.
Le carrozze hanno degli scompartimenti in legno e ci sono sei posti ciascuno e si chiudono con una porta a vetri. Le persone sono dimesse, hanno abiti umili e non sembrano felici. Appaiono già stanche anche se è appena sorta l’alba.
-Mamma, dove vanno queste persone?
-Non so, forse a lavorare, forse a trovare un parente lontano, forse in vacanza… forse a cercare un futuro migliore.
Molte ore sono passate nel silenzio, interrotto ogni tanto da qualche brusio, il fischio di arrivo o partenza attraversando qualche stazione. Il fumo di sigarette avvolge i passeggeri, impregnando i loro abiti, appannando la vista…
Sognare l’Eden?, di Rosa Cogo
Avrò avuto circa trent’anni. Bruno, mio marito, era morto ormai da sette otto, e la mia vita si era stabilizzata in un tranquillo tram-tram, lavoro casa e figli, segretaria presso l’Ospedale Psichiatrico. Dal mio ufficio tutte le mattine passavano i medici per firmare il loro orario d’ingresso (per inciso, per i medici era degradante anche timbrare un cartellino). Tra questi ce n’era uno particolarmente famoso perché interpretava i sogni. Quella mattina non vedevo l’ora di incontrarlo.
Mi trovavo in un bellissimo giardino pieno di piante e fiori, bandiere, palloncini di tanti colori intensi ma che non infastidivano, anzi era piacevole camminare, correre raccogliere fiori e giocare con i miei figli. Non era solo un giardino, ma anche un parco giochi con giostre come quello che venivano in paese quando c’erano le feste patronali: gli autoscontri, la giostra degli aeroplani e quella dei bambini, sempre molto colorate. L’atmosfera era allegra e giocosa, ma anche serena; mi sentivo bene. I bambini si divertivano moltissimo e passavano da una giostra all’altra. Ne ricordo una in particolare, la ruota panoramica, che invitata a salirci per fare un giro in alto. Mi è sempre piaciuto salire sulla ruota: quando arrivava al culmine potevo vedere il panorama tutto intorno, e nel sogno tutto era bello e piacevole. Ma la cosa che più mi aveva impressionato era il mio Bruno, era accanto a me, indossava l’abito che preferibilmente usava negli ultimi giorni, senza cravatta, e anche lui si divertiva ed era sereno guardando i nostri figli. Una cosa però non mi quadrava, il volto. Non era il suo volto, ma quello di una persona che non conoscevo, e i bambini non se ne curavano.
Lo psichiatra non si profuse in molte parole. Mi rassicurò che la situazione allegra, distesa, colorata esprimeva la mia tranquillità, la mia serenità dopo tanto dolore. Ormai ero pronta a riprendere la mia vita, e magari trovare un altro compagno con cui ricostruire la mia felicità.
Probabilmente ho sognato il mio Eden, dove poter essere felici. Ma io non credo alla felicità. È uno stato effimero, come un sogno; quando pensi di possederla è già svanita. Preferisco pensare alla serenità, più durevole, che mi aiuta ad affrontare i momenti difficili.